Ludo Ergo Sum – Intermezzo
La nostra epoca di tecnici fa un grande uso di un aggettivo sostantivato, quello di professionnel, in cui sembra credere che si rinvenga una specie di garanzia. Se non si guarda, naturalmente, ai miei emolumenti, ma solo alle mie competenze, nessuno può dubitare che io sia stato un ottimo professionista. Ma di che cosa? Tale sarà stato il mio mistero, agli occhi di un mondo condannabile.
(Debord, p.48)
C’è una bella intervista fatta ad Antonio Cassano, diciassettenne, dopo la partita del 18 dicembre 1999, Bari-Inter, data del suo esordio in Serie A. Partita, questa, che lo vede autore del gol del vantaggio del Bari al 43simo del secondo tempo. Nell’intervista gli si chiede: “cos’hai pensato quando eri lì?”. Cassano giustamente risponde: “non pensavo a niente, ho proseguito la mia azione, ho driblato e ho tirato con la benda agli occhi…la palla dove andava andava”.
Durante e dopo l’esecuzione dell’azione il campione non fa altro che agire, non pensa. Lui ha eseguito, senza una finalità: forse è questa l’essenza del campione, riuscire a trasfondere tutta la sua conoscenza tecnica nel gesto e, nel momento di farlo, dimenticare di averla. Una sorta di trance, di oblio di sé.
FAMOSO GOL DI CASSANO ALL’INTER + INTERVISTA DOPOPARTITA
(al min 1:56)
Per giocare bene bisogna smettere di pensare, o entrare in un altro regime di pensiero, un oblio creativo, in cui il pensiero è totalmente sottomesso all’azione, non è ricorsivo, è istintuale, è come se non ci fosse. Gli sportivi, specialmente quelli professionisti, sono assi del non pensare, almeno nel momento della performance. Ma a quel punto il gioco è tale solo per chi lo guarda, l’atleta in quel momento diventa un tutt’uno con il gioco stesso, probabilmente non ne gode nemmeno, se ha eseguito tutto alla perfezione è un automa, o un dio: qualcosa di inerte o al di là della sensibilità.
Come può Borg essere ciò che non è mai stato? Come può il tennis in persona essere scambiato per un volgare tennista?
Si renda dunque il giusto omaggio all’atleta in cui, grazie a Dio, la racchetta, non fu mai vil oggetto separato, ma protesi di quello splendido pensiero chiamato appunto Björn Borg, a suo modo costituente una lezione vivente di teologia.
(Bene, p.33)
Per questo nel gioco come attività e non come professione diffidiamo di chi gioca benissimo: che persona è? Cosa gli interessa del gioco che sta facendo? Perché gioca?
A maggior ragione se si gioca ad un gioco da tavolo, ad un wargame: che senso ha eseguire alla perfezione una partita?
Nessuno, si decade dal ruolo di giocatore. Essere giocatori è uno stato di grazia: si sperimenta la massima libertà delle proprie facoltà, in uno spazio e un tempo limitati. Il calcolo esasperato, la misura di ogni mossa, di ogni gesto, intacca questo stato di grazia, ne compromette il godimento, vincolandolo al solo compiacimento della vittoria, soddisfazione a posteriori per l’esecuzione perfetta di un piano, e delle mosse che hanno portato al compimento dello stesso. Questo aspetto fa allontanare il gioco dall’ambito ludico. Il gioco è frutto di un equilibrio dinamico tra la razionalità delle regole, l’inventiva dei giocatori e la tensione della competizione che rende l’attività stimolante. Quando uno dei lati prevale sugli altri si crea uno squilibrio, e il gioco si trasforma in qualcosa di diverso, non meno interessante, non per forza negativo.
La giocata da fuoriclasse impreziosisce la partita, ma se un giocatore cerca quel tipo di perfezione nell’esecuzione di ogni mossa (magari non riuscendoci e impiegando un tempo incalcolabile per compiere mosse mediocri, trasformandosi nel guastafeste [cfr. Huizinga, 2002] che rovina il gioco a tutti) allora si sconfina in un altro ambito: il professionismo.
In questo campo il gioco non è più il fine dell’azione, ma un mezzo, il mezzo attraverso cui si confronta la propria abilità con quella degli altri. Ciò ha senso nell’ambito di tornei, di eventi, situazioni insomma in cui lo sforzo esecutivo abbia un riconoscimento diverso da quello di una partita il cui scopo sia il divertimento del gioco.
E allora immaginiamo l’atto e l’azione. Cos’è un’azione? L’azione – qui mi ci vuole una metafora – è una congiura, una trama ordita, al di là della tecnica dei singoli, chiaramente tutti grandissimi giocatori, è vero, grandissimi congiurati, ecco […] questi congiurati devono uccidere Cesare – Cesare sarebbe il portiere avversario, mi spiego?
Allora, una cosa è l’azione, quindi si sviluppa una trama, fatta di assist, eccetera, poi si deve andare in gol. Il Bruto, il Lorenzaccio della situazione, al momento in cui uccide il tiranno, cioè buca il portiere in questo caso, ecco, e in cui sfonda la rete, si sottrae, sprogetta quasi l’azione. Deve obliare, deve dimenticare le finalità dell’azione, l’ethos, le finalità, gli scopi etici dell’azione, la moralità dell’azione. Perché deve smarrir se stesso, sennò non può colpire Cesare, non può dare un calcio al mondo.
[…]
Se non c’è questo oblio, nulla avviene.
(Bene, pp. 153-154)
Riteniamo che quello che molti tra gli appassionati del gioco lamentano, ovvero che sia difficile trovare compagne e compagni di gioco, anche nei raduni e nei momenti di socialità di appassionati del settore, derivi da questo motivo, dall’accavallarsi e dal confondersi di due piani che tra loro c’entrano pochissimo: il gioco e il professionismo. L’onnipresenza del professionismo, o del suo fantasma, è una stortura dei tempi attuali. È come se, al di fuori delle categorie di efficacia e di eccellenza, tipiche di una certa visione del lavoro, orizzonte dominante nell’ultraliberale Occidente contemporaneo, tutto il resto fosse meno importante. E la maggior parte degli esseri umani ha incorporato talmente tanto questo dogma che non riesce a scrollarselo di dosso nemmeno nel momento di libertà più assoluta che potrebbe sperimentare: quando si siede a un tavolo per giocare.
BIBLIOGRAFIA:
Guy Debord, Panegirico. Tomo Primo e Tomo Secondo, Castelvecchi, Roma, 2005, 2013 (ed. fr. Panégyrique. Tome Premier, éditions Gallimard, Paris, 1993; Panégyrique. Tome Second, Librairie Arthème Fayard, Paris, 1997)
Carmelo Bene, In ginocchio da te – Amori, miti e vergini. Lo sport secondo CB, Gog Edizioni, Roma 2022
Johan Huizinga, Homo ludens, Torino, Einaudi, 2002 (I ed. it. 1946, II ed. it., trad. di Corinna Van Schendel, Milano, Il Saggiatore, 1967; I ed. olandese, Groningen, Wolters-Noordhoff, 1938)
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Pezzo che definirei di altissimo livello, ben nobilitato dalle citazioni di Carmelo Bene (personaggio tangenzialmente e indirettamente toccato anche dal nostro mondo del gioco… ma mi tengo l’argomento da parte per una bella conversazione un giorno che avremo modo finalmente di incontrarci dal vivo). Nulla contro i tornei, la competitività, la ricerca della perfettibile nel proprio comportamento di gioco: sono elementi che possono senz’altro far parte dell’esperienza ludica, e rappresentano anche forti stimoli nel praticarla… tuttavia, come ben dici, tutto ciò non può e non deve spingerci a tradire l’essenza del gioco: la libertà nel vivere un viaggio “oltre”, come dice il dolce e gentile padre del gioco Huizinga.
Ecco, l’estetica del giocare, che quando viene persa rende più difficile condividere tale passione con gli altri, come acutamente evidenzi in queste righe. Perché giocare meglio non significa necessariamente giocare bene.
Grazie per gli apprezzamenti. Per quanto riguarda l’ultima tua affermazione, tocchi un punto importante, che proviamo a rielaborare e rilanciare così:
Giocare meglio non significa giocare bene, certo. Tuttavia pensiamo che la condivisione esperienziale (termine che preferiamo in questo caso ad “estetica” per una mera questione didascalica) del gioco rappresenti una sorta di grado zero non solo per il compiacimento e il godimento dell’esperienza in sé, ma anche per un migliore approccio al gioco stesso e alle sue meccaniche. Immergersi insieme nel gioco, illudersi a fondo, in una dimensione che è primariamente non tecnica, permette uno scambio di conoscenze più libero, un apprendimento migliore e potenzialmente una comprensione e un padroneggiamento delle regole più efficaci e completi che non quando vi si approccia da singoli (nell’ottica di prepararsi competitivamente ad un appuntamento ludico). In questo riscontriamo la migliore eredità di Debord, che più dei suoi colleghi d’oltreoceano insisteva sull’aspetto politico e comunitario dell’esperienza ludica.