Ludo Ergo Sum – Guy Debord e il simulatore di Clausewitz
Der Krieg ist eine bloße Fortsetzung der Politik mit anderen Mitteln
(La guerra è la continuazione della politica con altri mezzi)
– Della Guerra, Carl von Clausewitz
Sul finire della primavera del 1968 Parigi viveva una delle sue ultime e più fulgide esperienze rivoluzionarie. L’Internazionale Situazionista, movimento politico marxista d’avanguardia, dettava la linea. Eppure, quando tutto sembrava compiersi, uno dei suoi massimi esponenti (cineasta, filosofo, scrittore che quell’anno aveva pubblicato La societé du spectacle, testo di decennale gestazione che sarebbe presto diventato il manifesto del ‘68 francese), Guy Debord, lasciava Parigi definitivamente per ritirarsi in campagna con Alice Becker-Ho, compagna di lotta e di vita.
Per la maggior parte del tempo, ho abitato a Parigi […] Non avrei mai, o quasi, lasciato questa zona, che mi si attanagliava perfettamente, se alcune necessità storiche non mi avessero più volte obbligato a uscirne. Sempre brevemente negli anni della gioventù, allorché ci fu da arrischiare qualche rapida incursione all’estero, per portare più lontano la perturbazione, ma in seguito assai più a lungo, quando è stata devastata la città, e integralmente distrutto il genere di vita che vi si era condotto. Il che avvenne a partire dal 1970. Credo che di questa città sia stato fatto scempio un po’ prima di tutte le altre perché le sue rivoluzioni sempre ricominciate avevano anche troppo allarmato e scandalizzato il mondo, e perché erano sfortunatamente sempre fallite. […] Non ho voluto assistere più a lungo a questa degradazione di Parigi. Più generalmente, bisogna annettere pochissima importanza all’opinione di coloro che condannano qualcosa e non hanno fatto tutto ciò che occorreva per annientarla; e se no, per mostrarsi sempre tanto estranei ad essa quanto è ancora effettivamente possibile esserlo.
(Debord, pp.37-39)
Secondo la sua analisi il movimento si stava già istituzionalizzando, ed era già stato ampiamente intercettato dal controllo burocratico di socialdemocratici e stalinisti. Questo però non voleva dire abbandonare la lotta, ma darle nuove forme e, da parte sua, continuare a fornire mezzi teorici e pratici per portarla avanti. Debord sosteneva che un passo fondamentale nella formazione di coloro, proletari e non, che fossero votati a portare avanti la lotta di classe era lo studio dei conflitti, del modo di combatterli e di vincerli. Essendo difficile per i civili mettere in pratica tali lezioni, bisognava trovare un modo per favorire un addestramento al pensiero strategico che, pur mantenendo un valore sovversivo, non fosse immediatamente condannabile come pratica terroristica.
Per questo motivo passò molto del suo tempo dopo il ritiro a vita privata a sviluppare quello che per lui doveva essere la summa del suo pensiero e insieme uno strumento per applicarla: un gioco, più precisamente il Jeu de la Guerre o Kriegsspiel, omonimo non a caso del wargame di addestramento dell’esercito prussiano, adottato con variazioni e innovazioni dagli stati maggiori di tutte le grandi potenze mondiali fino ai giorni nostri.
Ho dunque studiato la logica della guerra. Tanti anni fa, del resto, sono riuscito a far apparire l’essenziale dei suoi movimenti su una scacchiera abbastanza semplice: le forze che si affrontano, e le necessità contraddittorie che s’impongono nelle operazioni rispettive dei due campi. Ho giocato a questo gioco e, nel governo spesso difficile della mia vita, ne ho utilizzato alcuni degli insegnamenti – a questa vita, avevo ugualmente fissato io stesso una regola del gioco, e l’ho seguita. Le sorprese di questo Kriegspiel appaiono inesauribili. Ed è forse la sola delle mie opere, temo, a cui si oserà riconoscere qualche valore. Sulla questione di sapere se ho fatto buon uso di tali insegnamenti, lascerò ad altri la conclusione.
(Debord, pp.51-52)
Il Kriegspiel prendeva il nome dal gioco inventato da Georg Leopold von Reisswitz per i principi di Prussia tra il 1807 e il 18011, perfezionato da suo figlio Georg Heinrich nel 1824 e velocemente diventato lo strumento di addestramento degli ufficiali prussiani durante l’ottocento. Riadattato, divenne uno strumento professionale, che ha avuto e ha una lunga fortuna in seno alle istituzioni militari, occidentali e non.
Il giovane Reiswitz e i suoi colleghi ufficiali subalterni perfezionarono il kriegsspiel con diverse sessioni di gioco, finché si rifece vivo il principe Guglielmo, chiedendo una dimostrazione del nuovo regolamento all’inizio del 1824. La prova andò tanto bene che il principe raccomandò il promettente ufficiale al capo di Stato Maggiore generale Friedrich Karl Ferdinand von Müffling, che aveva dimostrato interesse per le nuove metodologie di preparazione militare. Nonostante i dubbi iniziali, Muffling finì con l’entusiasmarsi del gioco e decise di raccomandarne ufficialmente l’uso tra i militari, sull’autorevole Militär-Wochenblatt del febbraio 1824.
(Masini, p.49)
Il fatto che gli apparati militari abbiano usato (e continuino ad usare) simulazioni professionali, ovverosia dispositivi ludici spogliati degli elementi di intrattenimento, dovrebbe immediatamente far risaltare due cose:
- come abbiamo sostenuto fin da principio, la peculiare natura dell’oggetto ludico lo rende uno strumento versatile di comprensione del reale, nonché di pianificazione e progettazione di azioni e progetti concreti;
- il gioco è utilizzabile per qualsiasi fine, dunque un approccio neutrale ad esso rispecchia un gamma di atteggiamenti che vanno dall’apatia del consumatore rassegnato ad ruolo socio-politico marginale, alla solerzia del collaborazionista del regime dominante.
Ad ogni modo, Debord non era il solo ad interessarsi al gioco di guerra. Nel secondo dopoguerra, negli Stati Uniti, nascevano case editrici specializzate in giochi di simulazione. Su tutte spiccava Avalon Hill che, nel 1954, pubblicò Tactics. Questo gioco, attualizzando e adattando commercialmente i principi delle simulazioni militari professionali, inaugurò una stagione di nuove pubblicazioni. Da Avalon Hill, sul finire degli anni Sessanta, si distaccò SPI (Simulations Publications, Inc), nata inizialmente come costola di Avalon stessa, ma che negli anni Settanta diventò indipendente, producendo una quantità industriale di titoli su tutta la storia militare (cfr. Masini, 2018).
Debord conosceva e criticava questo movimento di game designer – senz’altro pionieristico – che si sviluppava e cresceva negli Stati Uniti. Per ovvi motivi, come ad esempio la propaganda anti-comunista e le criminali politiche persecutorie nate dalla stagione maccartista, tale movimento era depoliticizzato nel migliore dei casi, filogovernativo nei restanti. Ad oggi sappiamo, e non è un segreto né un caso, che i maggiori game designer statunitensi nel campo del boardwargame hanno collaborato, direttamente o indirettamente, con CIA (Volko Rhunke), Pentagono (Mark Herman) o RAND (Jim Dunnigan). L’industria che era nata commercializzando questi giochi era votata principalmente ad esaltare l’aspetto di intrattenimento e di collezionismo, mettendo in ombra altri possibili utilizzi di questi strumenti.
I giochi prodotti da Avalon Hill, SPI e dai loro imitatori erano fallaci non solo perché il tentativo di simulare una particolare battaglia o campagna limitava le scelte dei generali da poltrona soltanto a ciò che era accaduto in quelle particolari circostanze storiche. Più seriamente, affinché i loro clienti potessero combattere senza difficoltà conflitti di molte epoche diverse, i progettisti americani adottarono un formato comune per la maggior parte delle loro pubblicazioni: mappe esagonali, segnalini di cartone, tabelle di penalità del terreno, zone di controllo e tabelle dei risultati dei combattimenti. Non sorprende che l’esperienza di giocare con Enrico Plantageneto ad Agincourt nel 1415 sia diventata molto simile a quella di vestire i panni di Georgy Zhukov a Stalingrado nel 1942. Come in una gamma di auto Ford degli anni Cinquanta, ogni gioco di Avalon Hill o SPI aveva lo stesso motore sotto la sua carrozzeria distintiva.
[…] nota 15: Nel 1986, Debord stigmatizzava così i game designer americani che avevano usato “…nelle ultime due decadi, la stessa colorata simulazione per un’infinità di specifiche battaglie storiche” [Guy Debord, Letter to Floriana Lebovici, p.388]
(Barbrook, p.119)
Debord preferì non concentrarsi su meccaniche che simulassero precisamente degli scontri già avvenuti, ma, sacrificando il realismo, creò un gioco che dovesse incorporare i principi fondamentali di ogni conflitto, stando all’impostazione che ne aveva dato von Clausewitz in Della guerra, di cui Debord era un acuto studioso.
Il Jeu de la Guerre è dunque un simulatore di Clausewitz, un gioco strategico-militare napoleonico: le unità rappresentano le tre principali armi degli eserciti dell’epoca, ovvero fanteria, cavalleria e artiglieria. I giocatori schierano segretamente due armate simmetriche, nella propria parte di campo di una scacchiera di 25×20 caselle, che presentano astrattamente delle variabili territoriali, naturali o artificiali: montagne (intransitabili), passi montani e fortezze (che forniscono bonus difensivi). Una volta che entrambi i giocatori hanno deciso le posizioni di partenza, il gioco prosegue con le due armate che si alternano nei movimenti ed eventualmente negli attacchi, che hanno in misura limitata: ogni turno potranno muoversi al più cinque pezzi e si potrà effettuare al massimo un attacco. La vittoria si raggiunge in due modi: eliminando i pezzi nemici o mettendoli fuori combattimento. L’elemento fondamentale del gioco, infatti, sono le linee di comunicazione: ogni esercito ha due quartier generali o arsenali da cui provengono gli ordini e i rifornimenti. Questo si traduce, nel gioco, con la necessità di mantenere le proprie unità in collegamento lineare con queste fonti logistiche. Se si riesce a disconnettere un’unità o un gruppo di unità dalla propria rete logistica, queste diventeranno inermi e catturabili.
Si potrà facilmente notare come il gioco presenti punti di contatto con il già citato Tactics, per quanto riguarda la scacchiera e il movimento di un numero limitato di pezzi; ma anche con titoli quali La Grande Armée e Frederick the Great: the Campaigns of the Soldier King per quanto riguarda le regole sulla rete logistica. Benché non avulso da contaminazioni, tuttavia, il Jeu de la Guerre voleva essere qualcosa di completamente diverso.
Nel Jeu de la Guerre, Debord aveva evitato il finto realismo del Vietnam di Karp, con la sua dettagliatissima mappa esagonata e le sue regole di una complessità sconcertante. Invece di detournare questa ossessione americana per l’accuratezza delle simulazioni militari, aveva inventato un’astrazione ludica degli scritti teorici e storici di Clausewitz sulla guerra.
(Barbrook, p. 283)
Nelle intenzioni di Debord, il gioco riusciva a schematizzare e riassumere tutti gli elementi principali della teoria della guerra di Clausewitz, senza essere legato alla rappresentazione di un conflitto specifico, e quindi si candidava ad essere un modello di addestramento per la lotta politica. Infatti, così come le organizzazioni governative usavano le simulazioni per addestrare i propri agenti, anche un movimento rivoluzionario e sovversivo si sarebbe potuto avvantaggiare utilizzando simulazioni simili, ma rispondenti ai propri principi ordinatori. In più, la pratica ludica avrebbe potuto risolvere quello che, secondo Debord, era il problema principale che funestava le organizzazioni rivoluzionarie fin dagli albori dell’età moderna: il bonapartismo. Tale termine designa l’accentramento di potere in un’unica figura carismatica che ha scalato i ranghi di un movimento rivoluzionario, mettendosene a capo come condottiero o come difensore istituzionale, una volta raggiunto il potere.
Attraverso la breve esperienza di diventare un piccolo Bonaparte, i giocatori di wargames acquisiscono la forza intellettuale e il coraggio calcolato richiesti per combattere la moderna iterazione della Guerra Assoluta: la lotta di classe.
(Barbrook, p.301)
L’obiettivo critico del gioco come sovversione, come attività ribelle e potenzialmente rivoluzionaria, è far notare, attraverso l’analisi e l’assunzione critica dei presupposti analizzati, che i due (o più) giocatori al tavolo giocano una partita su almeno due livelli.
Il primo, quello più immediato, è quello del gioco stesso, della singola partita. A questo livello i giocatori sono avversari e si immergono nel gioco, immedesimandosi nelle situazioni che si trovano ad affrontare, imparando a comprendere e utilizzare le regole per avvantaggiarsi e battere l’opponente.
L’altro livello vede i giocatori, avversari al tavolo, uniti in un’unica fazione contro il loro nemico comune: la borghesia liberale, o meglio il sistema valoriale e gerarchico della società fordista spettacolarizzata – dello spettacolo integrato.
Rispetto a questo, il modello di Debord è stato filosoficamente e politicamente insuperato, ma è lungi dall’essere un gioco perfetto. Dal punto di vista tecnico, infatti, non si può affermare lo stesso. Sarebbe inclemente e ottuso osannare questo singolo gioco, derubricando a opere collaborazioniste tutta l’enorme mole di pubblicazioni ludico-simulative anglosassoni. E quanto più il giudizio politico sull’industria editoriale americana è duro, tanto non lo può essere quello tecnico: il laboratorio in perenne evoluzione che hanno messo a disposizione Avalon Hill, SPI, Victory Games, ecc., ha permesso a designer brillanti di poter sviluppare sistemi sempre più ingegnosi, che hanno innovato e si sono pian piano distaccati dalla dittatura dei dati accumulati acriticamente.
Sarebbe inutilmente dogmatico, dunque, non notare che, anche all’interno di istituzioni conservatrici, si possono sviluppare, a volte anche contro le intenzioni degli stessi inventori, idee e strumenti che possono essere usati per sconfessare e scardinare il sistema che le ha prodotte.
Beninteso, solo se si adoperano strumenti interpretativi adeguati, come quello del già citato détournement, che dobbiamo a Debord. Questo principio situazionista consiste nell’estrapolare elementi da opere nate con un determinato scopo o in un determinato orizzonte culturale ed utilizzarli, riorientarli per quelli che sono gli scopi di coloro che se ne servono.
Nel prosieguo di questa rubrica cercheremo di analizzare come e quanto l’evoluzione del game design abbia dato vita a giochi interessanti, dal punto di vista simulativo e ludico, e quali lezioni possono essere tratti da essi, hackerando/détournando la logica con cui sono stati immaginati e prodotti, e mettendola al servizio della sovversione ludica.
BIBLIOGRAFIA:
Guy Debord, Panegirico. Tomo Primo e Tomo Secondo, Castelvecchi, Roma, 2005, 2013 (ed. fr. Panégyrique. Tome Premier, éditions Gallimard, Paris, 1993; Panégyrique. Tome Second, Librairie Arthème Fayard, Paris, 1997)
Riccardo e Sergio Masini, Le guerre di carta 2.0. Giocare con la storia nel terzo millennio, Milano, Edizioni Unicopli, 2018
Richard Barbrook, Class Wargames: ludic subversion against spectacular capitalism, Minor Composition, Wivenhoe/New York/Port Watson, 2014 (traduzione nostra)
Charles S. Roberts, Tactics, Avalon Game Company, USA, 1954
Edward Curran; Frank Davis, Frederick the Great: the Campaigns of the Soldier King 1756-1759, The Avalon Hill Game Company; SPI, USA, 1975
Nick Karp, Vietnam 1965-1975, Victory Games (I), USA, 1984
Materiali scaricabili gratuitamente per il Jeu de la Guerre: https://boardgamegeek.com/filepage/282862/map-and-counter
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Davvero affascinante la vicenda di Guy Debord, ne aveva già parlato tempo fa Fred Serval, con alcuni interessanti video di approfondimento sul suo canale Homo Ludens. Ottima la trattazione la tua, come sempre, e… grazie per la citazione!