Ludo Ergo Sum – Ouverture
Anno di grazia 2024.
Tommaso Lequino, scriba incallito, giocatore dilettante, a tutti: salve!
L’indagine che prende le mosse da queste parole, parte da una semplice constatazione: i giochi, in quanto strumenti che permettono un particolare tipo di attività – l’attività ludica – sono oggetti inerti e neutrali. L’uso che si fa di essi, le interpretazioni che se ne danno, invece, sono atti che hanno sempre una direzione e un senso, nel privato quanto nel pubblico.
Date le implicazioni che l’attività ludica ha nell’ambiente in cui si svolge e per coloro che la svolgono; data la sempre maggiore complessità del tipo di oggetti che sono i giochi moderni, i quali incorporano e rimodulano elementi della cultura generale, della politica, dell’economia, della storia, del pensiero scientifico contemporaneo, ecc.; è utile sviluppare un discorso rigoroso e sistematico nell’analisi e nella critica dell’attività ludica e dei giochi in generale, trattando questi ultimi come oggetti di studio.
Le pagine che seguiranno sono le tracce di una ricerca e dei suoi esiti, nell’ottica di fornire un contributo all’approccio di studio appena delineato. Tenteremo di dare definizioni, rivalutare quelle già esistenti, elaborare strumenti critici, inserendoci nel solco degli studi già avviati sulla materia.
In ultimo, tenteremo di suggerire e sviluppare interpretazioni, dei giochi come della pratica ludica. Questa è forse la parte più delicata e che possibilmente più si espone alle critiche, ma data l’importanza fondamentale che riteniamo abbia l’attività ludica nel panorama delle varie attività umane, crediamo che attuare un approccio soltanto descrittivo sia inutile.
Pertanto, come primo atto di questa ricerca, affermiamo:
Giocare non è un atto neutrale.
Si gioca per non arrendersi al mondo, si gioca nonostante il mondo, si gioca come atto di ribellione.
Queste frasi, per ora perentorie, verranno sviluppate in futuro.
Ci sembra altresì necessario compiere una precisazione sul metodo che intendiamo applicare: le riflessioni che proponiamo si compongono di due aspetti, uno teorico e uno pratico. Nelle argomentazioni teoriche cercheremo di seguire un ferreo rigore metodologico, rispettando i canoni che ci siamo dati e che, di volta in volta, mostreremo. Senza mai essere dogmatici, ma sempre aperti a mettere radicalmente in dubbio e anche a contraddire una posizione già espressa laddove questa si rivelasse inconsistente.
L’aspetto pratico riguarderà le esperienze dirette di gioco, rilette come esperimenti empirici ed estrapolando da esse elementi da sottoporre alla critica, con gli strumenti metodologici di volta in volta elaborati o esposti.
Sul valore dell’esperienza è tuttavia necessario fare un’ulteriore precisazione. C’è un vizio di forma nella pratica pseudo-empirista che dà per assodato che l’esperienza diretta, l’accumulo di dati, sia di per sé condizione necessaria e sufficiente per la conoscenza di un fenomeno. La raccolta di dati ha un’enorme importanza nel processo conoscitivo, ma è l’elaborazione critica degli stessi a fare la differenza. Una ricerca che non sia frutto del puro arbitrio ma che possa avere una più o meno solida base oggettiva e che sia quindi comunicabile, oggetto di discussione e anche di confutazione, si fonda sul vaglio dei dati alla luce di un metodo. Il metodo richiede uno sforzo teorico considerevole, che spesso scoraggia un atteggiamento scientifico rigoroso.
Nel mondo dei giocatori da tavolo la puntigliosità pseudo-empirista è una pratica estremamente diffusa: spesso ci si ritrova al tavolo con esperti che basano tutta la loro perizia sulla base del numero di partite effettuate ad un titolo oppure sulla quantità di titoli provati. O meglio, giocatori accaniti che scambiano la familiarità con le meccaniche del gioco da tavolo contemporaneo e la loro personale e relativa facilità ad applicarle (dovuta dall’esperienza maturata nell’ambito dell’hobby) con una capacità analitica e critica sul gioco come fenomeno.
Come giocatori, dividiamo l’aspetto dello studio da quello del divertimento. E siccome dal gioco giocato ci aspettiamo proprio il divertimento, al tavolo siamo sempre dilettanti. La nostra pratica può riassumersi in questo adagio: rigore nello studio, dilettantismo nel gioco. Ciò vuol dire innanzitutto che traiamo diletto dall’esperienza del gioco, separandola nettamente dal professionismo, tendenza dominante nel sistema di valori attuale e che tende a far assomigliare tutto ad un lavoro.
L’aumento dei divertimenti non costituisce in alcun modo la liberazione nel lavoro, né liberazione di un mondo modellato da questo lavoro.
(Debord, tesi 27)
Il diletto, attività massimamente improduttiva, serve come grimaldello per riorientare l’attenzione e l’intelligenza, permettendo uno studio che non sia neutrale, ma che possa fornire strumenti e letture non ideologiche della realtà.
Nel diletto, inoltre, il calcolo e la pianificazione certosina vengono meno, l’errore è dietro l’angolo: sbagliare, in questo caso, provocare l’errore, può valere molto di più di una mossa perfetta, perché esso è più prezioso nella successiva fase di elaborazione dei dati. Infatti l’errore, insieme al dubbio, sono rispettivamente l’elemento e lo strumento fondamentali del metodo scientifico moderno: rappresentano l’occasione per mettere alla prova le teorie, testarne l’efficacia sul campo, sconfessare quelle obsolete e elaborarne di nuove.
Quale sarà il campo in cui applicare e sviluppare questo metodo? Uno dei problemi dell’universo ludico contemporaneo è l’evoluzione esponenziale che ha interessato il game design e la mole di pubblicazioni dell’industria editoriale dedicata. Pertanto, lo sforzo maggiore di coloro che si sono cimentati nei game studies nell’ultimo decennio è stato orientato alla classificazione e sistematizzazione dell’esistente. Citiamo su tutti uno dei più recenti e accurati saggi sul tema:
Come le opere d’arte, i giochi da tavolo possono ricadere in categorie stilistiche. Verso la fine del Novecento era comune distinguere ad esempio quelli alla tedesca, o German, da quelli all’americana, o American. […] I German cercano di attenuare o evitare le occasioni di conflitto diretto tra i giocatori, spesso presenti negli American, e le ambientazioni esplicitamente guerresche: è anche una conseguenza delle prevenzioni sul ruolo diseducativo del giocattolo bellico assai diffuse in Germania, contro cui si è scagliato Umberto Eco (1986). Con la globalizzazione del mercato molti autori di nazionalità diverse cercano di rientrare nei canoni del gioco alla tedesca, adottati dai grandi editori germanici, e il filone viene presto ribattezzato Eurogames. Al tempo stesso i giochi all’americana prendono l’auto-ironica etichetta di Ameritrash. Ma le ibridazioni sono sempre più fitte: autori ed editori di ogni nazione producono ormai giochi di ogni tipo e questa distinzione è ormai superata.
(Angiolino, p.43)
Partendo da questa efficace definizione, con cui concordiamo soprattutto riguardo alle osservazioni sull’obsolescenza delle vecchie distinzioni, cercheremo di orientare la futura ricerca occupandoci di alcune categorie di giochi, prevalentemente il wargame, ma più in generale le simulazioni di conflitto, bellico, politico ed economico.
BIBLIOGRAFIA:
Guy Debord, La società dello spettacolo, Milano, Baldini Castoldi, 2008 [ I ed. fr., Paris, Buchet Chastel, 1967]
Andrea Angiolino, Che cos’è un gioco da tavolo, Roma, Carocci, 2022
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